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GAETANO DONIZETTI (1797-1848) 

  1. Sonata in fa maggiore “La solita Suonata” presto (o) [6'15''] 
  2. Sonata in si bemolle maggiore '”per Dolci e Donizetti” presto (o) [5'28'']
  3. Sonata in mi bemolle maggiore "L'inaspettata” allegro moderato (*) [8'18'']
  4. Sonata in fa maggiore “a quattro sanfe” larghetto -allegro brillante (o) [6'14'']
  5. Sonata in re maggiore allegro (*) [5'48'']
  6. Sonata in do maggiore (31-05-1819) allegro (*) [8'12'']
  7. Sonata in fa maggiore allegro -presto (*) [6'50'']

Durata 48'28" DDD 

(*) 1.a parte P. Dirani -(o) 1.a parte F. Amelotti

RECORDING DATA

Recorded at Teatrino della Villa Aldrovandi Mazzacorati

Recording date Bologna, July 1990

Recording supervisor and sound engineer Giulio Cesare Ricci

General producer Giulio Cesare Ricci

English translation M. Degan – S. Hayes

Tube microphone Neumann U-47

Digital tape recorder Teac R-1

Un ringraziamento al Prof. Marco Fontanelli per la preziosa collaborazione; un ringraziamento particolare al Dott. Claudio Proietti per il saggio sulle Sonate per piano a quattro mani di Gaetano Donizetti. 

GAETANO DONIZETTI (1797-1848)

SONATE PER PIANO A QUATTRO MANI

Quando si dice musica italiana riferendosi all'Ottocento e ad una buona parte del nostro secolo, l’associazione spontanea è quella con l’opera e il teatro. Per anni e anni è stata di fatto ignorata, anche in quei casi per i quali era nota l’esistenza di materiale “alternativo”, la continuità, forse sommersa ma reale, di quella tradizione strumentale che nei secoli precedenti aveva creato il mito della civiltà musicale italiana. Sommersa, dicevamo, e certamente sofferta -se è vero che i vari Piatti, Locatelli, Boccherini, Viotti, Cambini, Clementi, Raimondi, Radicati, furono costretti a vivere e operare a lungo all’estero, e che, a parte il caso isolato ed estremo di Paganini, i compositori strumentali delle generazioni successive, come ad esempio Bazzini o Golinelli, aspettano ancora una concreta identificazione -ma pur sempre viva. Tanto viva da costituire un “humus” fecondo anche per i numi del melodramma, molti dei quali hanno lasciato testimonianze incisive e significative in campo strumentale e cameristico. A parte il caso eclatante di Rossini, il cui silenzio dopo il Guillame Tell del 1829 fu apparente e relativo solo al teatro, fortunatamente non si finge più di ignorare le numerose prove in campo sinfonico, sonatistico e sacro di autori come Bellini, Cherubini, Mercadante, Paisiello. Per quanto riguarda Donizetti la scoperta e la valorizzazione del suo ricchissimo catalogo strumentale sono state incentivate e trainate dall'ormai pluridecennale “Donizetti renaissance” grazie alla quale è potuta riemergere anche la gran parte della produzione teatrale che il tempo aveva relegato nell’oblio. Nel caso specifico dell’autore bergamasco molto è stato detto e scritto a proposito dell’influenza determinante che il suo primo maestro, Johann Simon Mayr, ebbe nella formazione della sua felicissima mano strumentale (felicissima e almeno altrettanto facile di quella teatrale se si pensa che nel volgere di pochissimi anni Donizetti scrisse qualcosa come 16 sinfonie, 5 concerti per strumenti diversi, 18 quartetti, 1 sestetto, vari quintetti, alcuni trii e una nutritissima serie di pezzi in duo o solistici). Non v’è dubbio in effetti che le solide basi apprese da Mayr nella natia Baviera rimanessero a caposaldo anche della sua attività didattica, ma, a parte la sua precoce emigrazione in Italia per studiare prima a Bergamo e quindi a Venezia, va detto che molte delle opere strumentali di Donizetti possono essere fatte risalire al successivo periodo di formazione bolognese con Padre Mattei fra il 1815 e il 1817. Rientrano dunque nel pieno di una tradizione schiettamente italiana che aveva assimilato con sapienza e fantasia i dettami formali sonatistici d’oltralpe. Le Sonate per pianoforte a quattro mani qui raccolte ne sono testimonianza genuina e perfetta. Donizetti era notoriamente un pianista raffinato e sapiente, ma ciò non toglie che da queste pagine traspaia, più che una specifica ricerca pianistica, un’evidente concezione laboratoriale dello strumento visto come concentrato dinamico e timbrico dell’orchestra. Gioverà ricordare qui di passaggio che la scrittura per pianoforte a quattro mani fu per tutto il secolo XIX il veicolo privilegiato di divulgazione capillare del repertorio sinfonico, attraverso la trascrizione, proprio per la duttilità che le era propria insieme alla relativa facilità esecutiva. Quale più e quale meno queste Sonate appaiono insomma come delle Sinfonie d’opera messe su quattro pentagrammi anziché in partitura, in attesa di ulteriori sviluppi del resto facilmente intuibili, col senno di poi, fin dal primo ascolto. Tutte sono infatti m un unico movimento di circa 200 battute strutturato secondo un agile schema di forma-sonata in cui la ripresa è spesso abbreviata. Sempre la caratterizzazione dei temi è contraddistinta da una incisività del segno schiettamente teatrale, talvolta la canonica contrapposizione bitematica si arricchisce del contributo di una terza idea, come del resto avviene non di rado per esempio anche in Beethoven. Alcune di queste Sonate recano titoli il cui significato ci resta un po’ misterioso, ma che sempre denotano il taglio vivace e scherzoso ad esse attribuito. La Sonata in fa maggiore (“La solita Suonata”) prende le mosse da una scattante affermazione tonale e da un rapido movimento scalare in semicrome che costituirà la pulsazione base di tutto il brano, almeno fino all’apparizione del secondo tema, come sostegno all’incisività dei disegni ritmici e al frenetico gioco di contrapposizione fra blocchi dinamici. Dopo un lineare sviluppo e una ripresa privata del primo episodio tematico la coda sfuma su un ripetuto gioco di domanda e risposta sempre più rarefatto fino all’estinzione totale. E Donizetti annota: “Così finiscono tutte le cose di codesto Mondo”. La Sonata in si bemolle maggiore (“Per Dolci e Donizetti”) è assai più omogenea nella sua regolare scansione in fluide semicrome il cui disegno trascolora immediatamente in sorprendenti movimenti armonici e che informa di sé anche l’ammiccante, e schiettamente operistico, secondo tema in fa maggiore. La Sonata in mi bemolle maggiore (“L’inaspettata”) si basa su un tema affermativo, fatto di una proposta in ritmo puntato e di una risposta in quartine di semicrome, che viene sospeso e ripetuto prima di avviarsi, all’ottava battuta, in una vera espansione melodica. Anche in questo caso il gioco spaziale di domande e di risposte fra l’acuto e il grave rimanda immediatamente a una possibile destinazione orchestrale pur se la condotta delle parti risulta alla lunga un po’ meccanica. La Sonata in fa maggiore (“Sonata a quattro sanfe”) replica un luogo comune della sinfonia d’opera: introduzione lenta e tutta pervasa da un interrogativo senso di attesa e poi vivace scatto in velocità. In questo casosa tratta di un brioso “Allegro brillante” in 6/8 che sfrutta, alternandole sia la fluidità d’andamento tipica del tempo composto quanto le sue vitali valenze di dama. La Sonata in re maggiore è forse, tra quelle proposte, la più vicina ai supremi modelli; comunque, senza dubbio sconosciuti a Donizetti, della letteratura per pjanoforte a quattro mani: quelli schubertiani. Oltre al gioco fra le due parti e ai disegni più schiettamente pianistici, contribuiscono a creare questa sensazione le inflessioni melodiche del secondo tema di cantabilità molto più raccolta e sensibile al colore armonico. Non manca tuttavia nelle code un tipico elemento operistico, l’inattesa intrusione reiterate terzine, cosi come del tutto teatrale è il perentorio finale. La Sonata in do maggiore lo è in tutto e per tutto: nello scatto fàtico e ridonandante del disegno inziale, nella saltellante incisività del secondo tema, nella preparazione prolungata e sapiente della terza idea e infine nella mutevolezza di quest’ultima, paragonabile all’indecisione peregrinante di un personaggio in ambasce. La Sonata in fa maggiore presenta un netto e drammatico contrasto fra l’introduzione – “Allegro” in 4/4, di svagata e un po’ leziosa attesa – e il “Presto” in 3/4 nella tonalità in fa minore, su cui si sviluppa la sonata vera e propria. È un brano perentorio, di un’incisività un po’ corrusca che sfiora a tratti, soprattutto nell’episodio del secondo tema, i toni di un pateismo di stampo clementino, ma che verso la fine stempera progressivamente la propria drammaticità fino alla rassicurante luminosità del finale. 

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