WOLFGANG AMADEUS MOZART (1756 -1791)
Concerto in mi bemolle maggiore per due pianoforti e orchestra K 365
Allegro (10’)
Andante (7’)
Rondò. Allegro (7’)
Concerto in la maggiore per pianoforte e orchestra K 488
Allegro (8’)
Andante (6’)
Presto (4’)
Pianista Alexander Lonquich
FRANZ JOSEPH HA YDN (1732 -1809)
Concerto in re maggiore per pianoforte orchestra Hob. XVIII n.11
Vivace (8’)
Un poco adagio (7’)
Rondò all’ungherese Allegro assai (8’)
Pianista Nikita Magaloff
Recording data
Recorded at“Sala Verdi” del Conservatorio di Milano
Recording date Feb. 21th 1988 “Serate musicali di Milano”
Recording supervisor Giulio Cesare Ricci
Sound engineer Alessandro Orizio
Audio designer engineer Bê Yamamura
Tube microphone Numann U-47, Neumann U-49
Mixing console Bê Yamamura4.o
Analogue tape recorder Studer J37 two tracks
Digital tape recorder Sony PCM
Cables Van Den Hul
General producer Giulio Cesare Ricci
Text Anna Bergonzelli
ORCHESTRA DA CAMERA DEL FESTIVAL DI BRESCIA E BERGAMO
Nata nel 1963 con il nome di “Gasparo da Salò”, per iniziativa di Agostino Orizio e con la collaborazione della signora Esterina Comini Bozzi, della contessa Maria Bettoni Cazzago, del M° Ferruccio Francescani e di altri amici, è divenuta, nel 1964, il complesso da camera ufficiale del Festival Pianistico Internazionale “Arturo Benedetti Michelangeli”. Successivamente, senza abbandonare il suo compito per così dire, istituzionale, di collaborare con i solisti partecipanti al Festival, l’Orchestra diretta da Agostino Orizio e composta da strumentisti di chiara fama, ha svolto una propria attività in campo internazionale, dedicandosi particolarmente al repertorio cameristico settecentesco e proponendo all' attenzione del pubblico e della critica, accanto alle pagine celebri, musiche inedite o di rarissima esecuzione. È stata ospite, raccogliendo critiche e successi entusiastici, delle sale più prestigiose e più volte sugli schermi della Televisione italiana, rumena, americana, sovietica e polacca.
NIKITA MAGALOFF
Nato a Pietroburgo nel 1912, iniziò gli studi in Finlandia (dove si era rifugiato con la famiglia dopo la rivoluzione del 1917) sotto la guida di Alessandro Siloti, allievo di Liszt e cugino e professore di Rachmaninoff. Trasferitosi in seguito a Parigi, studiò con Isidor Philipp diplomandosi all'età di 17 anni con un Primo Gran Premio. Fu in questa occasione che Maurice Ravel ebbe a dire di lui: «È nato un grande musicista, veramente straordinario». Conseguì i primi successi internazionali con il violinista Joseph Szigeti e, dopo l’interruzione degli anni della guerra, fu uno dei primi artisti a suonare a Parigi e poi, nel 1947, a dare concerti negli Stati Uniti. Innumerevoli gli avvenimenti rilevanti della sua carriera, fra cui si ricordano la prima esecuzione della «VII Sonata» di Prokofiev, l'esecuzione del «Capriccio» di Strawinsky sotto la direzione dell'autore, «tournées» in Europa, USA, Giappone e Israele, frequenti e regolari presenze nelle giurie dei più prestigiosi concerti internazionali (Leeds, Varsavia, Bruxelles, Lucerna), attento com’è al manifestarsi di talenti nuovi fra le giovani generazioni. Ha inciso musiche di Liszt, Tchaikowsky, Weber, Strawinsky, Brahms, Granados e, ultimamente, per la Philips, tutta l'opera di Chopin, autore di cui Nikita Magaloff è tra gli interpreti insuperabili, opera che egli ha anche presentato; in cicli di cinque récitals, in tutte le più importanti città europee.
ALEXANDER LONQUICH
Nato nel 1960 a Trier (Germania), Alexander Lonquich ha studiato a Colonia con Astrid Schmidt, Neuhaus al Conservatorio e dal 1972 presso l’Accademia di Musica. Fra il 1976 ed il 1980 ha proseguito gli studi ad Essen con Paul Badura Skoda, perfezionandosi in seguito con A. Jasinski a Stoccarda e con Ilonka Deckers a Milano. Dopo alcune lusinghiere affermazioni in Germania, nel 1977 ha vinto il I° premio al Concorso internazionale «A. Casagrande» di Terni, e da allora è ospite ogni anno delle più prestigiose società concertistiche italiane e svolge regolarmente «tournées» all'estero. Si dedica anche con passione alla musica da camera, suonando frequentement~ in Duo con Nikita Magaloff. Paul Badura Skoda, Dino Ascio, Pietro Borgonovo e Michael Faust.
Wolfgang Amadeus Mozart
Per la raffinatezza di molti episodi strumentali, l’originalità e la perfezione della forma, l’intensità del suo universo espressivo, questo Concerto in la maggiore, in una pausa alla stesura delle Nozze, appartiene all’aristocrazia dei concerti di Wolfgang Amadeus Mozart e si pone quindi a uno dei vertici della sua creatività. La delicatezza con cui fin dall’esordio si definisce il carattere raccolto del primo movimento, la dolorosa solitudine con cui si dà voce nell’Adagio mirabile, il ritorno alla vita, con un sentore di nostalgia per il gioco, nel finale, caleidoscopico di temi e di ritmi, estraniano questo capolavoro dal genere d’intrattenimento brillante e mondano, per trasferirlo in uno spazio privato, in un ambito ove Mozart si direbbe colloquiare di sé con la musica. Da pochi altri luoghi come da questo Concerto, impariamo che se la sua musica ci appare estranea ai moti dell’abbandono o della confessione romantica, non è per una sorta di pudore dei sentimenti. ma perché in essa vive un’identificazione assoluta fra le parole della soggettività e il linguaggio musicale. Così quella dote ammirevole che è in lui l’assenza di forzature anche quando sfiora luoghi estremi dell’espressione, non è semplice senso della misura, ma epifania di quella identità, che si realizza con una adesione ad altri sconosciuta. Di qui nasce quella ideale autenticità della musica mozartiana che, negandosi a qualsiasi eccesso, trova la via per restituire senz’ombra di meditazione anche le apparizioni più personali e segrete degli stati d’animo. Già anticipavamo come il Concerto prenda avvio sottovoce, in un tono sommesso d’intimità: il tema cantabile proposto all’inizio dagli archi, per una di quelle trasmutazioni strumentali di cui Mozart possiede la chiave, trova subito nei fiati una insospettata, trasparente luminosità. L’esposizione orchestrale si completa con il secondo tema, dal caratteristico rintocco di una nota puntata, e quindi il solista ne ripete fedelmente il percorso, conservandone nella sobrietà di passaggi virtuosistici il tono di delicato lirismo. Al termine dell’esposizione, segnalato -dal tradizionale trillo pianistico, ha inizio uno sviluppo di straordinaria originalità. L’orchestra s’interrompe e propone agli archi un tema completamente nuovo, sognante e meditativo, trattato per imitazione. Per tre volte i legni, intrecciandosi in canone su un’area ripresa di quel motivo, tenteranno il solista, fin quando, finalmente persuasa dai loro nostalgici richiami, il piano unirà la sua voce alla loro. Sembrerebbe un idillio, ma sull’emergere al basso di una nota ribattuta, si apre, breve e improvviso, uno squarcio sulle regioni più oscure della sensibilità mozartiana, sul suo demonismo. Tutto questo se ne va in pochi minuti: ma la musica contrasta il tempo degli orologi ed è capace di concentrare in pochi attimi lunghe durate inferiori. L’Adagio, unica pagina composta da Mozart nella tonalità inconsueta di fa diesis minore, è uno dei luoghi memorabili della sua espressività dolorosa. La melodia iniziale del pianoforte, su di un cullante tempo di siciliana, trae da irregolarità del ritmo e preziosismi armonici, una meravigliosa intensità. É come una meditazione sul commiato, cui l’orchestra replica, scoprendo una sonorità di luce particolarissima, con un non meno struggente canto di consolazione. Il piano, ora si abbandona ai delicati melismi della mano destra, ora indugia su un passo di recitativo, per chiudere, dopo un misterioso intervento degli archi in pizzicato, attardandosi su un'unica nota ripetuta: quasi a voler ritardare l'attimo del distacco. Tipico dell’universo espressivo mozartiano, è che a una pagina così desolata segue un finale esuberante di vitalità e di gioia. Ma sbaglieremo se pensassimo a una volontà di conciliazione, al solo desiderio di ristabilire un equilibrio. Di fronte all’immanenza del dolore, la sua musica non si rassegna e ritrova, sul filo diun’aspirazione connaturata al Settecento, il gusto per riaffermare un sacrosanto diritto alla felicità. Così questo Rondò è un vero fuoco d’artificio d'inventiva tematica, capriccioso e quasi protervo intreccio di danza e di festa. Al suo interno si riserva uno straordinario ingranaggio strumentale: una fase di sei battute, scandita sul moto pendolare della mano sinistra e sostenuta da un pedale dei corni e un’armonia sul pizzicato degli archi. Quasi un immaginario giocattolo musicale, in cui si è cristallizzata l'idea di un universale tempo metronomico. Ben poco sappiamo del Concerto inmi bemolle maggiore per due pianoforti e orchestra K. 365, ultimo fra quelli composti da Mozart prima di abbandonare l’assai poco amata Salisburgo non la data di composizione, da collocare fra il gennaio 1779, subito dopo il ritorno dal disastroso viaggio a Parigi, e la fine dell'anno successivo; né l’occasione per cui è stato scritto. In assenza di dati precisi, taluni tratti stilistici e una qualche allure francese del Rondò conclusivo, inducono ad anticiparne la stesura ai mesi immediatamente seguenti il rimpatrio salisburghese, mentre l’impegno non indifferente richiesto ai solisti, suggerisce l’ipotesi che i destinatari fossero Wolfgang stesso e la sorella. Il rapporto che intercorre fra i due pianoforti, di studiata parità e senza che il primo abbia mai il sopravvento sull’altro, rende suggestiva la congettura di una festosa collaborazione fraterna. Mai, infatti, che uno dei due si arroghi il diritto esclusivo di condurre il discorso: la voce passa fra loro con spontanea naturalezza, ora per completare un tema o per riprenderlo in eco, ora per sostenere uno spunto con un disegno di accompagnamento o per prolungarne una rapida scala nel registro più acuto; quando si appaiano, come nel solennissimo trillo che ne annuncia l’ingresso nell’Allegro iniziale, è alla ricerca di una sonorità più piena e brillante. Così il dialogo, in completa comunanza d’intenti e senz’ombra di sconfinamenti severi nel contrappunto, si svolge di preferenza tra loro e lascia in sottordine gli interventi orchestrali. É una delle ragioni se questo Concerto, gratificato da una gioia di vivere e da una gaiezza un tantino esteriori, si mantiene un buon gradino al di sotto di quel suo parente prossimo che è la Sinfonia concertante per violino e viola K. 364. Il bagaglio di esperienze maturate a Mannheim e Parigi si sente nella sontuosità dell’inizio e nello spessore del primo «tutti», come in qualche efficace sottolineatura dinamica dell’orchestra; ma l’ampiezza della tessitura sinfonica, che Mozart conquisterà proprio in quel torno ditempo, è ancora alle porte. Quasi nessun rilievo ha, in questo primo movimento, l’idea di una elaborazione tematica: il discorso procede grazie al continuo proliferare di nuove idee, non certo per effetto di laboriosi sviluppi. Anche la nota dominante di genuina serenità non ammette intromissioni e si consente solo qualche chiaroscuro: appena un’ombra è, nello sviluppo, una minacciosa incursione a do minore del secondo piano, o l’insolito, repentino passaggio al minore immediatamente dopo la ripresa. Il movimento lento centrale traduce in toni più meditativi e affettuosi, con qualche venatura di malinconia, il clima dell’Allegro. Anche qui la ricchezza d’idee melodiche ne compensa la levità, mentre l’orchestra riserva presenze più rilevate: una deliziosa figura di trilli e note ripetute, o certi lunghi filamenti degli oboi come unico sfondo ai disegni pianistici. Un franco buon umore invade, infine, il Rondò, decisamente il più elaborato dei tre movimenti, con una sostanziosa partecipazione orchestrale in dialogo coi solisti, e una scrittura pianistica propensa alle figurazioni brillanti. Vi si annunciano certi spunti melodici alla Papageno, che dovranno attendere più di dieci anni per rifare la loro comparsa nel variopinto teatro del Flauto magico.
Franz Joseph Haydn
Artefice paziente e tenace di pure costruzioni musicali, nonché autentico fondatore di quei generi strumentali cui tradizionalmente associamo la straordinaria vitalità del Classicismo viennese, Franz Joseph Haydn fu al contrario assai poco attratto dalla forma del concerto solistico. Mentre le sue inesauribili facoltà creative conducono a piena maturazione, e secondo una insospettabile varietà di soluzioni formali, quegli splendidi frutti della seconda metà del Settecento che sono la sonata, il quartetto e la sinfonia, il concerto dovrà attendere Mozart perché le sue linee fondamentali conoscano una prima, e, ben inteso, già superba sistemazione. Basti pensare alle appena trentacomposizioni che consegna a questo ambito, confinandole peraltro, in gran parte, nei primi anni del servizio presso il principe Esterházy, e confrontarne il numero esiguo con gli altri, ben più cospicui, che la sua instancabile avventura artigianaleriservò ai generi prediletti. Al di là dell'assenza di suggestioni esteriori, possiamo azzardare alcune ragioni di questa scarsa congenialità: intanto, è noto come non praticasse da virtuoso alcuno strumento, né possedeva quel gusto per l’esibizione strumentale che una parte non trascurabile gioca negli intrecci fra strumento solista e orchestra. Gli faceva difetto, in fondo, come le sue opere non mancano di ricordarci, quel genio per la strategia teatrale che anche nel concerto tende a regolare l’avvicendarsi del dialogo, e ne configura le diverse dinamiche espressive come per una sorta di commedia strumentale. Ma, soprattutto, diremmo che la nascente forma-sonata, insistentemente esplorata dal suo talento chiarificatore, non era forse ancora matura per esporsi a quelle disgressioni strutturali, a quel proliferare d'idee tematiche che faranno del concerto mozartiano un organismo così poco propenso ad ogni codificazione. Il Concerto in re maggiore per pianoforte (ma all’origine per clavicembalo o fortepiano) e orchestra, scritto intorno al 1783, rappresenta dunque un’eccezione nell’itinerario compositivo haydniano, da collocarsi, insieme all’altro per violoncello nella stessa tonalità, in un periodo in cui egli trascura completamente questo genere di composizioni. Come in altri lavori di quegli anni, la sua naturale propensione per un far musica estroverso e pieno di vivacità, scavalca i riferimenti più diretti a uno stile dotto, in favore di un gusto popolare, di un gesto carico di semplicità e di immediatezza. Una gran fretta anima il Vivaceiniziale mentre il gioco degli sforzando, le successioni dinamiche di piano e forte, o l’intercalare di lunghe sincopi, contribuiscono alla flessibilità delle sue linee elementari. Prevale, su ogni impegno sonatistico, un’aria di schietto divertimento e appena fa capolino, durante lo sviluppo, nel rimbalzare tra la mano sinistra del pianoforte e gli archi delle ultime tre note del tema principale, uno dei principi più saldi del suo procedimento compositivo, quello della elaborazione tematica. Del Poco Adagio centrale si ammirano, più che il tema d’esordio, un po’ convenzionale, un ritmo di sestine suggerito dagli archi e di cui il solista s’impadronisce nelle sue fioriture, e ancor più la suggestiva sezione centrale in minore, dagli inconfondibili accenti mozartiani. E tuttavia, le carte migliori sono tenute in serbo per il finale, un Rondò all’Ungarese, pervaso di figure danzanti irresistibile di scatti e accelerazioni, e crepitante di gustose acciaccature, frutto di quella curiosa commistione fra spezie turchesche e melodie ziganeggianti, che tanto attiravaun esotismo settecentesco ancora non toccato da moderne preoccupazioni filologiche.